Contratti di convivenza: novità o contentino?



Ormai sono in vigore.
Una circolare esplicativa del Ministero è già pervenuta, e non si attendono (su questa parte della "Cirinnà") altri decreti attuativi e/o circolari.
Dunque, tutto è perfettamente efficace, e possiamo iniziare a trarre qualche conclusione.
Grande novità o contentino?
Purtroppo devo propendere per la seconda ipotesi: un patto che non regoli la fase patologica rischia di servire a nulla. Ma se la regolasse saremmo innanzi ad un contratto "all'americana", sicuramente discriminatorio nei confronti delle coppie unite in matrimonio, per le quali non è consentito, com'è noto.
Ma l'interpretazione della legge sul punto è ancora confusa e caotica (la lettera della legge ne è, come sempre, complice....).
Sono teoricamente possibili interpretazioni molto interessanti.

Mi spiego: se andate a convivere ed è tutto "rosa e fiori", certo, potrete regolamentare le non inutili novità previste dalla legge, per darvi qualche piccola garanzia e qualche  sicurezza (peraltro, a spanne, poco percepite come utili dai conviventi, ma sarà solo il tempo a dirci se ho ragione....), e se tutto non è "rosa e fiori", vi sono tradimenti o litigi, è presto fatta: si smette di convivere.

Ci sono figli? Bene: la disciplina c'è, e da tre anni, grazie all'unica legge recente finora realmente utile nel diritto di famiglia (in attesa che i decreti rendano operativa l'unione civile...), ovvero la disciplina riguardante i figli nati fuori dal matrimonio, la legge 219/2012, che peraltro dobbiamo al Governo Letta, che ha rivoluzionato un settore enorme senza le trombe e i tromboni che caratterizzano l'operato del suo successore.

Vogliamo che in fase patologica vi sia una regolamentazione (consensuale!) dei rapporti, magari proporzionata all'apporto economico di ciascuno alla famiglia di fatto: bene, stando alla lettera della legge ed a come attualmente è interpretata, bisognava sposarsi.
La fine della convivenza rischia di essere una mera comunicazione da trasmettere al comune,  priva di condizioni per il futuro.
A meno che non si sposi un'interpretazione estensiva (che io caldeggio assolutamente) che consenta nell'accordo di "fine convivenza" di concordare condizioni di separazione pari a quelle delle coppie unite in matrimonio che decidono di separarsi consensualmente.

Se ci si rivolge al giudice (art.65 della legge) sarà possibile ottenere un assegno solo se viene provato lo stato di bisogno e non avente, lo stesso assegno, la natura di un vitalizio, essendo previsto a termine.

Ma se non ci si rivolge al giudice (e qui è il nocciolo del problema) non è chiaro se sia possibile, nella comunicazione al comune della fine convivenza, porre delle condizioni che rendano l'atto simile ad una separazione consensuale, che ovviamente non disciplini eventuali figli, per i quali rimane valida ad ogni effetto la L. 219/12 (con quindi anche un concreto rischio di "doppio binario" farraginoso e dispendioso per le parti). La teoria per ora prevalente è che tale comunicazione tale debba essere, senza possibile apposizione di condizioni concordate.

Insomma, come al solito, l'hanno scritta male.

Ma di ogni sviluppo, interpretazione o novità, ovviamente, ragioneremo.



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