Tribunale di Roma: su Facebook non c’è posto per l’hate speech



Inutile nascondersi dietro a un dito, il caso è celeberrimo: la chiusura, da parte di Facebook, di alcune pagine i cui contenuti erano stati valutati non adeguati.

Il Tribunale di Roma ha ribaltato la precedente decisione di dicembre 2019, sancendo, con oltre 40 pagine di motivazione, il diritto di Facebook di procedere alla cancellazione delle pagine.

Pur occupandoci abitualmente di diritto di famiglia, abbiamo ritenuto di spendere qualche parola sulla sentenza in commento, costituendo Facebook uno strumento anche da noi utilizzato quotidianamente per comunicare.

Pare proprio, a chi scrive, che il Tribunale non abbia voluto lasciare spazio a dubbi interpretativi, pronunciandosi con una forza che difficilmente troviamo nelle sentenze di merito.

Tre i passaggi fondamentali.

Punto primo, può parlarsi di organizzazione che incita all’odio? Possono i contenuti pubblicati essere considerati alla stregua di hate speech?
Il Tribunale non ha dubbi, e riporta in motivazione decine di post, relativi rispettivamente all’elogio del fascismo e all’incitamento all’odio contro rom, migranti e omosessuali.
Le pagine e i post avevano, secondo il giudicante, inequivocabile contenuto discriminatorio.

Punto secondo, il profilo privatistico. L’utente che si registra sul social Facebook conclude un contratto, del quale accetta le condizioni generali. Tra queste, il divieto di utilizzo della piattaforma per scopi discriminatori, pena la rimozione del contenuto, il blocco dell’account o la cancellazione della pagina.
Vietati i discorsi di incitazione all’odio, non ammesse organizzazioni che incitano all’odio.
Come diretta conseguenza, Facebook aveva il diritto di far valere l’inadempimento del contratto, cancellando le pagine e bloccando gli account, come previsto nelle condizioni generali.

Punto terzo, e qui risiede la portata della sentenza, il nodo del diritto alla libera espressione del pensiero.
A conclusione di un excursus approfondito ed esaustivo sulle fonti (internazionali e interne) e sui precedenti giurisprudenziali (internazionali e interni), il Tribunale di Roma conclude in modo tranciante.
Il diritto alla libera manifestazione del pensiero è un diritto fondamentale, ma non assoluto, in quanto deve contemperarsi con gli articoli 2, 3 e 117 della Costituzione (rispetto della dignità della persona, non discriminazione e rispetto degli obblighi internazionali).
Il diritto di manifestazione del pensiero non può coprire i messaggi d’odio, pena il sacrificio di altri diritti fondamentali, che devono essere prioritariamente tutelati.
Nella consapevolezza di ciò, il Tribunale richiama le iniziative promosse dall’Unione Europea per contrastare il fenomeno dell’odio in rete, considerato particolarmente grave e potenzialmente pericoloso per il sistema democratico.
Facebook (come altri social network) ha siglato un Codice di Condotta in ambito europeo, impegnandosi alla rimozione di ogni forma di hate speech entro 24 ore dalla segnalazione.
Facebook, pertanto, aveva non solo il diritto, ma il dovere giuridico di prendere provvedimenti, in ossequio a tutte le norme sopra richiamate e al Codice di Condotta sottoscritto, prima ancora che in forza delle condizioni generali di contratto.

Legittima, dunque, la condotta del social network, con conseguente rigetto del ricorso e condanna alle spese.

Non intendiamo qui esprimere giudizi né commenti di stampo politico, non è questo il nostro ruolo. Né escludiamo un futuro nuovo cambio di indirizzo del Tribunale.
Ad oggi, tuttavia, chiunque usufruisca di Facebook per comunicare non potrà esimersi dal tenere in considerazione questa sentenza.

“La libertà di espressione comporta doveri e responsabilità”, un passaggio che –riteniamo- riassume perfettamente le quaranta pagine di motivazione e ci ricorda con quanta forza le nostre parole possono, nel bene e nel male, avere un impatto sulle altre persone.

Se ci suona familiare, forse è perché già Spiderman sapeva che da un grande potere derivano grandi responsabilità.




Commenti