Questa la massima della recentissima sentenza di Cassazione 06/03/2020 n. 6470
L'ex coniuge che lamenta l'insufficienza dell'aumento dell'assegno divorzile disposta in suo favore dal giudice, a seguito della raggiunta autosufficienza economica della figlia e della revoca dell'assegnazione della casa familiare, deve dedurre quale quota di reddito era riservata al mantenimento della figlia, in modo da consentire ai giudici di valutare l'incapacità dell'aumento dell'assegno di permettere alla ricorrente di prendere in locazione un immobile presso cui risiedere.
La pronuncia in esame è importante poiché, anzitutto, fotografa un momento particolarmente «patologico», ovvero il momento della raggiunta autonomia economica dei figli e, dunque, la fine dell'assegno per loro nonché la fine dell'assegnazione della casa alla madre.
L'onere della prova richiesto (correttamente) alla ex moglie faciliterà la valutazione necessaria, da parte del giudice, della congruità dell'eventuale aumento della assegno a favore della stessa, avuto riguardo, in particolare, alla possibilità di permettersi una locazione alternativa.
La valutazione di chi scrive è in linea con le pronunce di Cassazione che non vedono nell'assegno divorzile un vitalizio perenne, ma una sorta di «aiuto temporaneo», dunque, salvo casi particolari, che saranno ovviamente valutati dal Giudice, un aumento dell'assegno tale da pareggiare in toto il valore economico dell'assegnazione della casa sarebbe un controsenso. In quest'ottica si trova particolarmente corretto che la Cassazione, nella pronuncia in discorso, indichi il criterio della individuazione della «quota di reddito riservata al mantenimento della figlia», il che legittimerebbe un aumento dell'assegno, sì, ma contenuto e ovviamente non di valore pari al «benefit» perduto.

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